Negli anni ’70 arrivarono in Italia i film di Kung fu. Tra i primi: “5 dita di violenza” seguito da tanti altri.
Il fenomeno suscitò in molte persone l’interesse per le arti marziali.
Ma in quegli anni, in Europa, il mondo delle arti marziali non aveva ancora iniziato a tracciare un cammino tale che potesse soddisfare l’improvvisa esplosione della richiesta da parte di aspiranti adepti della prodigiosa arte del kungfu e da questa situazione trassero grande vantaggio le scuole di arti marziali giapponesi, le uniche presenti sul territorio, forti di una fama e organizzazione ormai consolidate.
Il primato apparteneva al Judo, già sviluppato nel nostro paese da diversi anni, supportato dal fatto di essere già da tempo sport olimpico.
In realtà, il maggior interesse fu catturato dalla disciplina del Karate, che ebbe pieno sviluppo in quel periodo. Fiorirono molte scuole, frequentate da chi voleva avvicinarsi al combattimento utilizzando tecniche di calcio e pugno, come appariva in ogni dove sul grande schermo. Il karate inoltre offriva sia un circuito per le gare sportive sia il sistema delle cinture, che allettava molti praticanti.
Il kung fu d’altro canto, anche se era stato il motore dell’interesse del pubblico, non era rappresentato né da maestri né da scuole.
Fu così che molti di quelli che avevano fatto “qualcosa”, un po’ di karate un po’ di judo, non potendosi fregiare del titolo di maestro in tali discipline, iniziarono a spacciarsi per maestri di stili improbabili di Kung fu, di draghi, tigri e chi più ne ha più ne metta, quasi sempre frutto della loro (quella sì!) imbattibile fantasia.
In effetti i film che arrivavano in quel periodo non erano basati su tecnica, preparazione e agilità ma creavano un alone di mistero che spesso sconfinava nella magia.
Così, quasi sempre, i sedicenti maestri affermavano di aver appreso stili segreti da misteriosi maestri, che avevano insegnato solo a loro, facendogli giurare di non rivelare mai a nessuno il loro nome (Mah?!? Se ne vergognavano così tanto?). Per non parlare poi dei titoli conseguiti per corrispondenza.
Non essendoci nessun riscontro tutto era ammissibile e incontestabile. Così iniziarono a nascere le prime scuole di “kung fu”, in varie parti d’Italia. Tra i molti, anche io, che ero alla ricerca di questa misteriosa arte, mi imbattei in una di quelle figure.
Iniziai a praticare nel 1972, avevo 13 anni. Io e i miei compagni ci allenavamo dentro uno scantinato trasformato alla meno peggio a palestra, con della gomma pressata in terra ricoperta con un telo e dei cartoni alle pareti.
Allora il maestro in questione raccontava (e penso che almeno quello fosse vero) di aver frequentato un corso di difesa personale basato su tecniche di karate e judo (penso solo di judo) quale cadetto della scuola militare della Nunziatella, per cui, all’inizio, vantandosi di conoscere le tecniche per potersi difendere da qualsiasi attacco, non tirava ancora in ballo il Kung fu.
Intanto, per fortuna, in molte librerie iniziavano ad arrivare i primi libri che trattavano anche di arti marziali cinesi, spesso scritti in inglese o qualche volta in francese.
Tra gli autori spiccava tale Robert William Smith, un americano appassionato di arti marziali, inviato dalla CIA a Taiwan tra Il 1959 e il 1962. Questi pare avesse studiato con diversi maestri e avesse potuto scrivere, grazie alla collaborazione di questi, diversi libri su stili tradizionali come Bagua Zhang, Xingyi, Taiji Quan e anche sul Kung Fu di Shaolin.
Smith aveva inoltre scritto un libro sulle arti marziali indonesiane. Chiaramente quei libri spesso erano di tipo divulgativo, come introduzione a quel mondo, per dare un’idea di cosa fosse l’arte marziale trattata.
La reperibilità di quei libri si rivelò un’arma a doppio taglio e, se da una parte iniziò a fare luce sui vari pseudo maestri di kung fu che intanto si erano formati da noi, dall’altra dettero a questi soggetti la possibilità di aggiornarsi rendendo le loro storie meno fantasiose.


Fra le tante cose che Count Dante affermava di conoscere c’era il Dim Mark tradotto come il “Tocco della morte” e il Kata che mostrava nel libro si chiamava “La danza della morte”. Una vera chicca era l’ultima foto del libro in cui Count Dante prima rompeva dei mattoni con le mani e nella foto successiva mostrava come con le stesse mani accarezzava i capelli di una ragazza (faceva il parrucchiere di mestiere).
Intanto all’interno della scuola che frequentavo iniziavano i primi cambiamenti, da un programma in cui non esistevano taolu (forme con sequenze codificate di movimenti) ma solo singole tecniche, ecco che, con l’aumento delle conoscenza sulle arti marziali cinesi, grazie ai libri che arrivavano, iniziavano a nascere da un giorno all’altro, le prime forme.
…La barca su cui navigavamo iniziava a scricchiolare sempre più forte.
Nel 1976 usci in Italia la prima rivista specializzata sulle arti marziali: “Samurai”. Già dal terzo numero la rivista citava il Maestro Shin Dae Wong, appena giunto in Italia dall’America. I suoi costumi e le sue movenze erano a quell’epoca molto spettacolari, e lo erano in un certo senso anche le sue interviste in cui affermava che il kung fu era ricchissimo di forme.
In seguito avemmo modo di vedere da vicino il kung fu di Shin Dae Wong, in quanto un suo allievo fu mandato a fare il militare a Firenze, e volendo continuare ad allenarsi venne da noi.
La principale differenza che si notava subito tra noi e la sua preparazione era che lui aveva un programma preciso di allenamento, mentre noi, vuoi perché le forme nate in una notte variavano continuamente e il tipo che le aveva create se le scordava spesso, vuoi perché la marea di tecniche usa e getta non avevano un programma erano volatili, noi, dicevo,eravamo guidati in maniera piuttosto approssimativa.
Tutti questi elementi alimentavano il dubbio sulla autenticità del nostro insegnante. Insomma, i libri parlavano di una realtà completamente diversa dalla nostra.
I praticanti di karate di allora, così come quell’allievo di Shin Dae Wong, rispetto a noi sembravano sapere esattamente cosa facevano e in più, anche nel cinema, con l’arrivo del mitico Bruce Lee i film erano cambiati, meno mistici e più tecnici.
…La nostra barca aveva smesso di scricchiolare, ora imbarcava acqua.
Anche la storia dell’esame scritto non era per niente convincente, nella fantasia uno può riuscire a difendersi da un esercito armato fino ai denti, ma nella realtà le cose sono ben diverse.
Così alla fine arrivammo a fare una proposta al tipo: rimani la nostra guida, ma chiami qualcuno competente da cui imparare veramente.
All’inizio lui sembrò allettato dalla nostra proposta e cominciò a valutare con chi collaborare, anche se in Italia all’epoca i papabili erano pochi, poi la doccia fredda: in una riunione con lui e i più anziani della scuola, il tipo esordì dicendo che non avrebbe chiamato nessuno, congedando tutti con la frase: “Non sono un maestro, ma fino a che ci sarà anche una sola persona che mi chiama maestro, io sarò un maestro”.
…La barca affondò.
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